Il colera a Bagnoli - 1867

L’11 ottobre 2020, in occasione della manifestazione nazionale “Domenica di carta 2020”, 

promossa dal Ministero per i beni e le Attività Culturali e per il Turismo al fine di valorizzare lo straordinario patrimonio archivistico e librario custodito nelle biblioteche e negli archivi pubblici, l’Archivio di Stato di Campobasso, per iniziativa del suo direttore Vincenzo Lombardi, ha proposto la mostra documentaria  intitolata: Epidemie in Molise durante l’Ottocento: vaiolo, febbri tifoidee, colera … uno spunto per la ricerca.
Con documenti provenienti dai fondi Intendenza di Molise, Prefettura, Miscellanea Opere Pie, sono stati evidenziati aspetti peculiari della situazione socio-sanitaria del territorio molisano, provvedimenti delle autorità sanitarie indirizzati a tutelare la salute pubblica, indicazioni relative alle campagne di vaccinazione, dati statistici sulla diffusione delle malattie.
Tra i documenti presenti in mostra anche la relazione che il medico Ferdinando Vecchiarelli scrisse il 22 novembre 1867 a proposito dell’epidemia di colera che si era manifestata in Bagnoli del Trigno nel Settembre precedente.
Anche il nostro medico, come si usava al tempo, chiama il colera “morbo asiatico”, essendosi effettivamente diffuse le 6 pandemie che a causa di esso si ebbero nel corso dell'Ottocento a partire dalla zona del Gange, in relazione all’apertura delle rotte commerciali tra Afghanistan e Persia seguita alla conquista britannica del Nord dell’India.Vecchiarelli ne descrive analiticamente i sintomi: diarrea, vomito, disidratazione, dolori epigastrici, mialgie e contratture, sete «inestinguibile», singhiozzo, febbre, algore cutaneo, colorito livido. Il blocco renale preannunciava la morte: «Dopo tali e tante sofferenze succedeva la morte, e nell’ora dell’agonia vedevi il lividore quasi nerezza, l’algore affatto marmoreo, i polsi mancare, ed oscurissimo divenire il movimento del cuore».
A causa delle scarse conoscenze del tempo le terapie adottate furono unicamente quelle a base di oppiacei, laudano, eccitanti nervini, frizioni d spirito canforato. Si usava anche il discusso citrato di ferro, allora molto propagando da alcuni settori del mondo sanitario ma dalla dubbia efficacia come Vecchiarelli non trascura di sottolineare: «Il citrato di ferro, ad alta dose somministrato, a pochi giovò e ad altri produsse del male». La consapevolezza del nostro medico dell’inefficacia di quei rimedi risulta chiara quando afferma: «Insomma la cura fu tutta sintomatica o palliativa. È quindi sventura che mentre in Medicina tanti e tanti progressi si valutano, non si è potuto ancora insino ad oggi rinvenire un rimedio sovrano, un rimedio eradicativo del morbo che appellasi colera».
Non conoscendo l'agente eziologico del morbo, mancava anche un metodo uniforme di cura della terribile malattia. Non era allora chiaro che il colera è un’infezione diarroica acuta causata dal batterio Vibrio cholerae la cui trasmissione avviene per contatto orale, diretto o indiretto, con feci o alimenti contaminati. La scienza medica si divideva tra "miasmatici" e "contagionisti". I primi ritenevano che a causare il contagio fosse l'aria corrotta, i miasmi generati dalla decomposizione di materiale organico. I secondi sostenevano invece che il colera si trasmettesse attraverso il contatto diretto tra persone. Osservazioni empiriche misero comunque in evidenza il pericolo rappresentato da vesti ed escrementi dei colerosi e la possibilità che fosse l’acqua a diffondere il contagio. Già nel 1854 il medico londinese John Snow aveva compreso con chiarezza che la causa dell'infezione era da ricercarsi nell'acqua contaminata. Ciò nonostante, almeno fino all’isolamento del vibrione colerico nel 1880, l’inquinamento dei pozzi e delle falde acquifere non fu preso in considerazione nelle disposizioni governative di prevenzione del morbo. Ancora nel 1870 lo scienziato tedesco Max von Pettenkofer, ribadiva la tesi masmiatica. Davvero curioso appare a noi oggi questa tesi secondo la quale respirare i vapori provenienti da acque stagnanti, anche delle falde freatiche, era considerato causa dell’infezione, mentre bere acqua, probabilmente infetta, no.
Ad ogni modo anche a Bagnoli furono messe in atto tutte le precauzioni in uso al tempo. La Commissione sanitaria coordinata dal sindaco ordinò la disinfezione di tutte le case mediante imbiancatura con cloruro di calce, il divieto di vendita di frutta non matura e di animali morti per qualunque patologia, il divieto di accumulo di immondizie, il controllo dei letamai, la vigilanza sui mattatoi, la disinfezione fuori dall’abitato della persona e degli abiti di chi proveniva da Roma «dove il morbo imperversava». Una serie di pratiche che, se certo contribuivano al generico miglioramento delle condizioni igienico sanitarie del paese, non colpivano l’agente vero del contagio: la contaminazione del cibo e dell’acqua con materiali fecali infetti, conseguenza della mancanza di impianti fognari e di un’adeguata distribuzione dell’acqua. La rete fognaria sotterranea fu d’altra parte realizzata in Bagnoli, come in molti altri paesi molisani e in diverse altre zone italiane non solo meridionali, soltanto nella seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento. Per non dire che ancora oggi in moltissimi centri abitati italiani mancano o non funzionano adeguatamente i depuratori.
Una qualche relazione tra cibi e trasmissione del morbo il nostro Ferdinando Vecchiarelli l’aveva comunque intuita, anche se solo in relazione ad un loro generico grado di insalubrità ed all'uso eccessivo. Raccomandava infatti «sobrietà nella cibazione». Non dimenticava poi di suggerire, non senza un qualche moralismo, anche la «moderazione nell’uso della vita» criticando la «soppressione del pudore». Distanziamento personale, dieta o addirittura digiuno, dunque le precauzioni più importanti suggerite. Se l’infezione era evidentemente gastroenterica, non mangiare poteva certo aiutare, se non ad evitare il contagio almeno a ridurne le conseguenze letali. Mancava purtroppo nelle sue indicazioni ogni riferimento al pericolo costituito dall’acqua inquinata da materiale fecale di individui infettati, sia malati che portatori sani.
A differenza di quanto era accaduto durante l’epidemia del 1837, quando a morire di colera a Bagnoli furono ben 239 persone nella sola parrocchia di S. Silvestro, non furono comunque molti i morti per la stessa infezione nel 1867: 5, tutte donne.

Una ricerca nei registri parrocchiali ci ha consentito di rintracciarne 4, tutte della parrocchia di S. Silvestro:
Giovanna Baiocco, 59 anni, di Francesco e Angela Minni, morta l’8 settembre 1867 «molestata dal vomito».
Teresa Ialungo, 68 anni, di Giovanni e Marta Gabriele, morta il 17 settembre 1867 «molestata dal vomito».
Marta Zingarelli, 14 anni, di Vitale e Nicolina Gabriele, «morta di cholera» il 26 settembre 1867.
Petronilla Massullo, 16 anni, di Giacinto e Giovannella Greco, molta il 2 ottobre 1867 «perché assalita dal cholera». Abitava nella contrada Fontana, oggi Fonte vecchia.


Il medico don Ferdinando Vecchiarelli, nato a Bagnoli il 18 marzo 1835, era figlio del notaio Giovanni - a sua volta figlio del defunto Giuseppe - e di Irene Greco. Aveva un fratello Achille, nato il 21 settembre 1836, e 6 sorelle, con cui abitava nella casa 51 della parrocchia di S. Maria Assunta. Alla casa 63 altri Vecchiarelli con il canonico don Attilio.